La formazione efficace

La formazione è uno strumento di sviluppo importante, ma non è tutta uguale. Anche quando è in parte o del tutto finanziabile con soldi pubblici, le aziende non possono trascurare l'impegno di tempo e organizzazione che essa comporta. Giustamente, vogliono constatarne l'efficacia attraverso risultati tangibili: indicatori di performance che migliorano.
Gli stessi lavoratori che chiedono ai loro datori di lavoro di essere formati per continuare il loro percorso professionale, di certo non vorrebbero perdere tempo in aule dove imparano poco o niente.
Quindi, formazione sì, ma solo nella misura in cui è davvero efficace.
A questo riguardo, ho la netta la sensazione che la modalità di formazione più diffusa, quella frontale – la classica formazione con un docente che spiega ad una platea di discenti in ascolto – non lo sia quasi mai.
I motivi per cui lo penso sono principalmente due:
- La formazione frontale impone al discente un atteggiamento passivo che impegna molto la sua capacità di concentrazione. Per evitare che essa si esaurisca velocemente, il docente può creare diversivi (es. fare molti esempi, battute, ecc.), ma è certo che presto o tardi il livello di attenzione crollerà, soprattutto se la lezione dura più di un paio d'ore.
- È dimostrato che a distanza di poche settimane, il discente dimentica la quasi totalità dei contenuti trasmessi dal docente in modalità frontale, vanificando di fatto lo sforzo sostenuto per aumentare le sue competenze.
Ci sono eccezioni? In qualche misura si: se l'apprendimento include una parte "in campo", ovvero se c'è anche addestramento, il discente memorizza più facilmente. Il perché è scontato: anche se nella prima parte della lezione è rimasto solo in ascolto, può mettere in pratica subito dopo quello che ha appreso, facendone esperienza.
Questo porta a chiedersi: e se in aula si potesse interagire molto di più con il docente e gli altri partecupanti? Di nuovo, la risposta è scontata: se il discente diventa parte attiva, la sua attenzione resta alta e la formazione risulta più efficace. Il confronto, lo scambio di informazioni, l'analisi di casi reali contribuirebbero ad incasellare la materia nella sua testa, sviluppando le competenze – hard, se i contenuti sono tecnici, ma anche soft, se le interazioni con il gruppo funzionano – e sviluppando il pensiero critico.
Il problema ora si sposta sul docente: quali competenze deve avere per evolvere da mero formatore a "facilitatore della formazione"?
Evidentemente la sua prospettiva non sarebbe più solo comunicare unilateralmente contenuti di cui è profondo conoscitore, ma fare in modo che essi attecchiscano nei discenti generando un chiaro valore per loro e per la loro azienda. Per farlo, il formatore deve prevedere spazi per la condivisione, l'esperienza diretta, la riflessione, la gratificazione, e tutta una gamma di emozioni che renderanno la sua lezione – se ancora si può chiamare così – indimenticabile da diversi punti di vista.
Non basta: tempi e spazi sono destinati a cambiare totalmente, quindi il docente deve saper gestire l'aula tenendo d'occhio sia l'orologio (come ha sempre fatto), sia il raggiungimento degli obiettivi intermedi: sono riuscito ad attivare la partecipazione di tutti i presenti? Sto dando lo stesso spazio a tutti? Sto consentendo a ciascuno di riflettere ed elaborare su quanto stiamo discutendo? Sto chiedendo feedback di verifica per capire, argomento per argomento, se l'obiettivo di apprendimento è raggiunto? E così via.
Dunque, il modello alternativo alla formazione frontale che suggerisco – e che applico – è quello della formazione facilitata ed esperienziale, appena descritto. Comporta progetti più articolati e una maggiore personalizzazione, garantendo sicuramente maggiore efficacia.